Ricordando i quarant’anni de “L’albero degli zoccoli”

Ricordando i quarant’anni de “L’albero degli zoccoli”

Quarant’anni fa usciva un film epico e immortale nella sua semplicità, “L’albero degli zoccoli”.

Per noi ragazzi bergamaschi nati negli anni Sessanta ha segnato la riscoperta di campagne infinite, profumo di erba, racconti della nonna, polenta e odore di legna nella vecchia stufa. Per i nostri genitori ha segnato il ritornare alle origini, risentire il freddo delle notti di gennaio dietro i vetri ghiacciati, il frusciare nel materasso delle pannocchie ruvide sotto la schiena. Ricordare la desolazione della povertà ma anche la dignità del proprio orgoglio.

Quando nell’autunno del 1978 il film uscì nei cinema dei nostri paesi tutti si fiondarono per vederlo. E mi stupisco di come abbia attirato subito migliaia di bergamaschi.

Albero degli zoccoli

Di solito non siamo abituati a mettere sotto i riflettori qualcosa di personale, intimo, familiare. I bergamaschi, soprattutto quelli di una certa età, hanno la tendenza a liquidare il tutto con quel tono solito, come dire che quelle cose lì le hanno fatte anche loro senza tante storie, senza finire in tv.

Invece fu un successo. Soprattutto nella bergamasca. Devo dire però che il mio papà Mansueto non aveva alcuna intenzione di andarlo a vedere.

Non mi disse il motivo e io non glielo chiesi. Ero una ragazzina, ma immagino che in un certo qual modo gli risvegliasse ricordi di fatica che ancora lo facevano soffrire nella loro spietata realtà. Aveva dovuto emigrare in Svizzera poco più che ventenne, appena messo in congedo alla fine della guerra nell’agosto del 1947, perché lì in paese  non c’era futuro. Chissà cosa avrà provato mentre scendeva a piedi lungo la mulattiera per portarsi verso il confine con la Valtellina, Como-Chiasso.

Io invece avevo seguito con grandi aspettative l’avvicinarsi del giorno della proiezione. Su L’Eco di Bergamo uscivano articoli su articoli che raccontavano l’evento.

Quel pomeriggio di domenica d’autunno del 1978 mi portai per tempo all’oratorio con i miei cugini per avere i posti in prima fila. I più belli. Per me fu una fiaba, un racconto quasi magico, un altro mondo. Ma nello stesso tempo era il mondo in cui entravo ogni giorno quando andavo nella cucina di mia nonna Angelina, la mamma di mio papà. La tavola rettangolare, lunga, di legno scuro. Le credenze scure e le madie profonde e cupe, il nero delle pareti e la finestrella da cui entrava poca luce.

Nella casa della nonna tutto scricchiolava misteriosamente, e io un po’ ne ero incuriosita e un po’ ne ero spaventata.

Al termine del film ero emozionata, conquistata, commossa, e anche arrabbiata per l’ingiustizia subita dal Batistì. Ero corsa a casa che era già buio, una sera autunnale dove il sogno aveva abitato i miei occhi. Da quel giorno ho tenuto nel cuore il mio Albero degli Zoccoli conservandone il ricordo come un pizzo pregiato. Una parte di me che non si è sbiadita.

Amora Bassa, i prati di gennaio e la mulattiera per scendere ad Albino (1979)