Quando Bergamo fu la prima città ad aiutare il Kosovo

Quando Bergamo fu la prima città ad aiutare il Kosovo

La Guerra del Kosovo è una guerra dimenticata.

Nel 2001, 2002 metteva paura anche solo nominare quei territori. La guerra era proprio oltre il confine italiano.  Una guerra disperata. Una guerra di assedio. Al termine del conflitto apparve ai media internazionali uno scenario inimmaginabile: villaggi distrutti,  nessun collegamento, popolazione allo sbando. In un contesto di assoluto immobilismo, ecco che da Bergamo,  Lombardia, partì una prima, storica spedizione di 200 volontari. Letteralmente senza avere idea di cosa avrebbero trovato nel Balcani. Senza coordinate.  Spinti solo dal desiderio di aiutare. Tanti erano giovani, per lo più lavoratori che avevano chiesto permessi e aspettative nelle fabbriche o sui cantieri. I muratori iniziarono a ricostruire le case, i più giovani a far giocare i bambini, gli artigiani a far da maestri agli uomini sopravvissuti, dando consigli, montando e affastellando, carpentieri, manovali, lattonieri, piastrellisti.  Da Pristina, la capitale, ai villaggi più remoti. Acqua, viveri, vettovaglie,  sanitari. Lavoro.

Grazie ai volontari bergamaschi molti giovani kosovari hanno visto la luce in fondo al tunnel, la possibilità di imparare un mestiere, di assorbire tecniche e usanze,  di mettere in pratica rudimenti nuovi, per nuove fondamenta, da cui  la loro terra poteva risorgere.

Il Progetto si intitolava “Insieme per il Kosovo”, e in un’epoca in cui social e smartphone ancora non avevano preso piede, tutto avveniva via sms. Via messaggini. Estate 2001, i bergamaschi entrarono nella città di Pec-Peje quasi da liberatori,  alla maniera della cavalleria dell’West. Nel giro di qualche giorno la rete di collaborazione e solidarietà raggiunse il confine con il Montenegro. Intere vallate erano isolate dal resto del mondo, tagliate fuori, come in uno scenario apocalittico. Si aprirono una strada per giungere alle borgate. Ruspe, scavatrici, badili, picconi. Ciò che apparve agli occhi dei bergamaschi fu la devastazione totale: emotiva, fisica, paesaggistica. La gente era talmente traumatizzata, che quasi si era inselvatichita, da mesi e mesi senza un contatto con l’esterno.  Ma bastò allungare una mano, uno schiocco di lingua in dialetto bergamasco, e ci si capì all’istante. Muri umani di solido calore, senza smancerie, né stucchevolezze. Ma fiducia, tanta. E consapevolezza. Altrettanta. Maniche rimboccate, scarponi pesanti sepolti nel fango. Guanti  da lavoro. Quelli di cuoio compatto. Elmetto di sicurezza. E via. Loro c’erano.  Ora bastava farsi avanti. Giunse  settembre, il famigerato settembre 2001. Le Torri Gemelle. E nulla fu più lo stesso. Ci si dimenticò del Kosovo. Ma là, in quelle brulle alture dei Balcani, gli uomini continuavano a lavorare. Fianco a fianco. Dialetto bergamasco e dialetto albanese. A New York il mondo si era sbriciolato e capovolto. Ma qui, qui bisognava garantire riparo in vista del lungo inverno  dell’est.  Non sarebbero state sufficienti le tende.  Si rischiava l’assideramento. Era necessario predisporre strutture più capaci, più solide. Le Torri Gemelle erano crollate, ma qui nel Kosovo si ricostruivano torri e ponti. Piazzali e parcheggi. E nel frattempo i bergamaschi dovevano garantire la scuola ai ragazzi, ai bambini. A scuola avrebbero potuto dimenticare per qualche ora la tragedia in cui vivevano ogni giorno.  A scuola avrebbero potuto riprendere a studiare, a migliorare, a conoscere. Affinché il futuro non diventasse polvere di silenzio. I bergamaschi ben lo sapevano. E allora via, anche alle partire di calcio, alle giocate modello oratorio, alle pizzate.

Insieme si superò il duro inverno, ed ecco il 2002. E poi un anno dopo l’altro. I bambini imparavano l’italiano, i ragazzi aiutavano nei lavori, gli adulti avevano ritrovato uno scopo. Le famiglie si stavano rinsaldando.  Case, muri, aree verdi, scuole, centri polifunzionali, chiese.  Servizi sanitari, igiene. I volontari bergamaschi andarono aumentando negli anni. Sempre di più. Portando nuove idee. Nuova linfa. Nuove collaborazioni tra le due nazioni.  Fino al 2007 si creò una sorta di vivo gemellaggio  tra l’Italia e il Kosovo.  Una delle iniziative più coinvolgenti fu l’arrivo a Bergamo di molti piccoli soli, sopravvissuti alla guerra. Bambini orfani, senza famiglia, in cerca di parenti e familiari dispersi. Il  Progetto http://new.cgil.bergamo.it/biblioteca/images/bergamo_per_il_Kosovo_2.pdf” aprì le porte di  migliaia di case bergamasche ai tantissimi bimbi senza più sorriso. Solo visioni atroci di morte e distruzione. Ma a poco a poco il buio si sciolse nel giorno, e un nuovo canto di primavera riportò il sorriso ai piccoli usignoli del Kosovo.

Quando ripartirono da Bergamo molti di quei bambini, oggi ultra ventenni, lasciarono disegni e poesie.

“Grazie Bergamo, mio papà è ritornato dalla guerra. E ora insieme ricostruirono la nostra casa. La mia cameretta e il letto con il copriletto di mongolfiere”.