Sui prati di Amora di Aviatico, sotto la Cornagera, una madre osserva la propria bimba con sguardo di luce e calore leggero. La tiene salda, protetta dal suo abbraccio, al sicuro. Alle loro spalle i terrazzamenti, i “rièi” che un tempo delimitavano i campi coltivati a mezza costa, simbolo del mondo contadino ancora radicato alla terra. Era il 1963, preludio del boom, della rinascita, della nuova realtà. Il futuro sembrava a portata di mano, docile e trasparente sotto le dita, come un mazzo di fiori. Quali domande sono state lasciate sul prato?
Da bambina ricordo le fughe in bicicletta, le ginocchia sbucciate sulle strade non asfaltate nei pomeriggi lunghi e assolati verso Ganda, a trovare la zia Agnese e tutti i cugini, in un divertimento polveroso e sudato sui pendii del monte Rena, verso “ol tribülì de Ganda” o nelle discese sotto il cimitero, isolato sul pianoro oltre l’abitato.
Già allora mi divertivo a creare storie, personaggi, avventure, partendo dalle strisce delle mattonelle di graniglia, o dei marmi della chiesa, la domenica. La valle del Rovaro era uno spazio da esplorare dove potevo trovare la mia gemella, me stessa come migliore amica, per diventare una cosa sola con l’erba, il cielo, la roccia, l’acqua, ascoltare i suoni nelle sue mille lingue segrete.
Ma quello sguardo di madre è rimasto intatto, avvolgente come una copertina di lana, sicuro e puntiglioso come aguzzi sassolini, lo sguardo di essere figlia, affidata e sostenuta da quelle mani screpolate e abiutate a lavare e pulire. Lo sguardo di una madre non invecchia con il suo corpo, lo sguardo di una madre piange ancora come una bambina.