“Per i fratelli calabresi”, l’ode struggente per il terremoto del 1905 scritta da Luigi Agostino Garibaldi

“Per i fratelli calabresi”, l’ode struggente per il terremoto del 1905 scritta da Luigi Agostino Garibaldi

Nella notte tra il 7 e l’8 settembre 1905, alle ore 1.43, un fortissimo terremoto interessò l’area tirrenica calabrese, con epicentro al largo di Vibo Valentia. Vennero distrutti interi paesi, con una totale devastazione del territorio, apertura di voragini, frane. Circa 600 furono le vittime. Si verificò un immenso maremoto da Nicoterra a Scalea con onde alte fino a sei metri. Ma fu un terremoto dimenticato.  Venne infatti subissato dal famoso terremoto del 1908, che squarciò il territorio da Reggio Calabria a Messina e fece più di 100.000 vittime.

Eppure il terremoto del 1905 mise la Calabria in ginocchio. Molti furono i tentativi di aiuto, ancora agli albori, lasciati innanzitutto alla buona volontà dei singoli e dei privati.

Una iniziativa in particolare val la pena riportare alla memoria. Un’ode struggente che invita al coraggio e alla speranza, che esprime con tratti epici e poderosi il temperamento fiero del popolo calabrese, erede di miti e leggende, dal cuore tra la roccia e il mare. Un poemetto di 150 versi divisi in 10 paragrafi e racchiusi in un opuscoletto decorato in stile liberty su fondo giallo beige.

Era conservato tra i vecchi libri che mio papà Mansueto, con fatica e risparmi, negli anni trascorsi emigrante in Svizzera come minatore e muratore dal 1947 al 1965, aveva raccolto in un baule. Si tratta di una piccola opera scritta da Luigi Agostino Garibaldi, avvocato di Genova che “si dilettava a scrivere”. Si intitola “Calabria – Ai fratelli calabresi”, 1905. Nella pagina del frontespizio la dedica all’amico conte Aldo Martinelli scritta di suo pugno in inchiostro di china. Autografata. Il libricino venne editato ad Asti dalla Tipografia Paglieri & Raspi.

Si legge nella postfazione “Questi versi vennero detti il 25 settembre 1905 al Teatro Alfieri dal signor Giuseppe Eusebione, nella Serata di Beneficenza “Pro Calabria”. Aldilà dello stile linguistico di vecchia memoria, rimane la dolce consapevolezza di un legame comunque profondo tra nord e sud, dove la solidarietà riempie da sempre il cuore del popolo italiano.  Emerge prepotente l’orgoglio di vedere la poesia diventare strumento di sollievo e compassione, per alleviare, allora come oggi, l’animo ferito e strappato dell’uomo.  Dolcezza che diviene pietà, in una terra da sempre sconquassata dai sismi.  Quello del settembre 1905 è considerato uno degli eventi più forti della recente storia sismica italiana. Magnitudo 7 della scala Richter. La distruzione di migliaia di abitazioni mise in ginocchio l’intera regione, costringendo molti ad emigrare e lasciando una ferita da cui poi la Calabria si rialzò a stento. Migranti che abbracciano migranti. Mi piace pensare che ci sia qualcosa anche di mio papà Mansueto in questi versi dedicati ai “fratelli calabresi”.

I.  Eran percossi, ma non eran domi.

A un’impari battaglia condannati

sul cammino del tempo,

da le cune pelasghe e da le fonti

popolate d’elleniche leggende,

eran cresciuti a contrastar la morte

nel nome de la vita. (…)

V. Eran percossi, ma non eran domi.

E il demone beffardo e minaccioso

pel cielo di Calabria

i suoi vanni distende un’altra volta.

Ne l’ebbrezza, che gode e che travolge,

sozzi blasfemi strappa a la natura

e in rombo di battaglia

ai figli suoi li scaglia;

ignote forze esprime da la terra,

sul mar scatena i venti furibondi,

paurosi lampi accende fra le nubi,

grevi pendici avvalla

da la montagna impura…

Eran case, eran piagge, eran biade;

son muri infranti e squallide contrade.

(…) Così fremeva in liberi cimenti

un manipol di morti e di morenti.

VII. Giacquero i vinti ne la stanca polve.

Ma una schiera amorosa e vaneggiante

da la fuga è tornata

a careggiar di pianto e di lamenti

il vasto cimitero insanguinato.

VIII. O pallidi risorti che scrutaste

con fermo ciglio le profonde zolle

ed a le tombe avite

donaste il bacio de l’amor devoto,

svelate al mondo il fulgido segreto

ch’ogni forma travolve – e non distrugge.

IX. (…) fin dove stride un mendicar doglioso

e una man si protende

al soccorso vicino,

sotto le stelle che l’azzurro inarca

Dante si sdegna e mormora il Petrarca.

X. Canzone che dolori e che rammenti,

da le piante ubertose di vigneti

e di fantasmi tragiche,

vola su i colli dove Roma nostra

serba l’ara latina;

da i fastosi prodigi

l’anima suggi de  l’Italia Madre,

e le vincenti penne

drizza maestosa sul cammin di Spartaco: (…). (Luigi Agostino Garibaldi)

RICORDANDO IL TERREMOTO DE L’AQUILA

6 aprile 2009, quando il terremoto “venne nel mezzo della notte, a tradimento…”