Le donne partigiane dimenticate dalla storia

Le donne partigiane dimenticate dalla storia

Le donne nella Resistenza italiana

Una pagina pressoché dimenticata della nostra Resistenza è la partecipazione attiva di molte giovani donne, circa 35.000 alla liberazione dal nazifascismo. Una pagina ricca di atti di coraggio, profondi legami di amicizia, incrollabili ideali e speranze infinite. Donne, ragazze, sorelle, spose, vedove che decisero di mettere in pericolo la loro stessa vita in nome della libertà.

Oltre 4500 di esse vennero arrestate, torturate e condannate. Più di 3000 deportate in Germania. Ma soprattutto furono esattamente 623 le ragazze fucilate, impiccate o cadute in combattimento dal ’43 al ’45. Eppure solo 30 di esse vennero decorate con medaglie al valor militare. Donne Combattenti.

Ce ne furono tante, di “donne partigiane” che  parteciparono con coraggio, creatività ed eroismi estremi alla Resistenza. Ma quattro storie in particolare meritano di essere ricordate a nome di tutte le altre, dimenticate dal tempo. Innanzitutto perché è uscito il libro “La casa in montagna. Storia di quattro partigiane”.  Inoltre queste donne meritano che sia resa pubblica la loro testimonianza e che venga loro dato il giusto riconoscimento come figure di importanza vitale ad una  pagina estremamente sofferta della nostra storia.

La casa in montagna, libro

Ada Gobetti, nata nel 1902, era rimasta vedova giovanissima. Era un comandante vero e proprio, operava con la sua Brigata sulle montagne più impervie del Piemonte. Dopo la Liberazione fu la prima donna a essere nominata vicesindaco di Torino.

Bianca guidetti Serra, classe 1919, si era laureata in giurisprudenza, traguardo quasi unico per una donna. Organizzava comitati d’azione contro i fascisti nelle fabbriche.

Frida Malan, classe 1917, era una staffetta. Si camuffava spesso da sposa per trasmettere i messaggi clandestini.

Silvia Pons, nata nel 1919, era un medico. Si ritrovò spesso a curare i feriti e a nascondere i ricercati.

Quattro donne, quattro amiche, una sola città, Torino. Si incontravano di notte per pianificare e condividere le loro rischiose missioni. Sempre nel pericolo di essere catturate. Accanto a queste risolute combattenti, migliaia e migliaia di altre donne, sconosciute e anonime, insorsero in tutta Italia, creando una fitta rete di soccorsi, di interventi, di appoggio. Il punto di partenza era la loro stessa casa. Fagotti, coperte, cesti di viveri, vettovaglie, ricambi di abiti, medicinali, lasciapassare, documenti falsi, armi. Il filo nascosto della resistenza partiva dalla città, in un rito quotidiano fatto di contatti clandestini, tappe intermedie nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro, al mercato. Di notte lo scenario era la montagna. Chilometri e chilometri al buio, con zaini e panieri da consegnare agli uomini.

A torino c’era una caserma, la famigerata Caserma La Marmora, in via Asti, dove molte di queste giovani donne furono portate dopo essere state catturate. Molte le torture inflitte per obbligarle a parlare. Ma non cedettero.

Le donne della Resistenza furono madri, mogli, sorelle… costruttrici di futuro, ricamatrici di vita. Con le unghie e con i denti andavano avanti, passo dopo passo, sapendo che solo con la tenacia avrebbero potuto davvero rivedere la luce della libertà. Hanno combattuto per i loro figli, per i loro nipoti, per i nuovi italiani.

Eppure, Quando il 6 maggio 1945 a torino ci fu la grande Sfilata dei Partigiani per la liberazione della città, poche furono le donne a cui fu permesso unirsi agli uomini. Perché alla fine le donne dovevano ritornare in cucina.