“Gustando Selvino 2022”, Incontriamoci in Contrada con il Live Like a Local

“Gustando Selvino 2022”, Incontriamoci in Contrada con il Live Like a Local

Saperi e quotidianità di una volta raccontati dagli oggetti della vita contadina attraverso la voce di Aurora Cantini! Creatività e inventiva raccontati dall’intaglio del legno attraverso Mario Midali! Scatti e ricordi a “Gustando Selvino” domenica 16 ottobre!

Aurora Cantini e Mario Midali a “Gustando Selvino 2022”

L’intaglio del legno è un’arte. Mario Midali ne è un esponente di spicco sulle Orobie. Sceglie i tronchi più adatti e con scalpelli e picozzine, insieme alla modernissima motosega, scolpisce piccoli capolavori.

A “Gustando Selvino 2022” un abbinamento unico. La modernità unita all’arte antica. Quella dei lavori di una volta. Il mondo contadino dove unica padrona era la vita in campagna, nei campi, nelle stalle, con il bestiame, nei pascoli. E dove gli unici oggetti, indispensabili alla sopravvivenza di ogni famiglia, erano fatti di legno. I rami di nocciolo, i tronchi di lantana, i carpini, i cornioli, i salici, i castagni, diventavano gerle, gerlini, gabbie, rastrelli, manici di falce, zangole, fraschere per portare i covoni sulla schiena, sgabellini, taglieri, panieri, cestini e ceste. Niente chiodi. I vari componenti si affastellavano usando chinghe e filacci di lantana.

Per sfoltire e appuntire sia i rami di nocciolo utilizzati nella costruzione degli archetti, sia gli arbusti che servivano a preparare le “stròpe” con le quali creare gabbie, gerle e gerlini, oppure intagliare i legacci con i rami di lantana, che servivano ad avvolgere le fascine o avere le cinghie delle gerle, era d’uso un falcetto molto piccolo e maneggevole, quasi un coltello a serramanico di oggi, portato alla cintura per ogni occasione. Si chiamava “pigusì”.

Col “pigusì”  si sfoltivano in inverno anche i rami di ginepro, oppure le “stròpe” di salice per fare le scope, ma anche i rami di maggiociondolo per i conigli.

Tutto il legname da “lavorazione” andava tagliato con la luna crescente, perché era  in vigore, e si manteneva elastico e umido a lungo.

Per creare i covoni, “masöi”, era necessaria la “fraschéra”, una specie di lettiga fatta con due assi laterali di castagno allungate e due sul lato corto su cui andava deposto il fieno che veniva poi messo in sicurezza tramite un sistema di corde. In uno dei due buchi ai capi dell’attrezzo si passava la corda più lunga che avvolgeva tutto il mazzo di fieno; all’estremità un secondo foro permetteva l’incastro di una corda più corta che, collegata a un bastone chiamato “rampina”, fatto con i rami di cornale, con cui si intagliavano anche i denti del rastrello, permetteva di stringere la corda fino a bloccare e pressare il fieno. Dopodichè si appoggiava la “fraschéra” per lungo sulla schiena, creando all’estremità una nicchia nel fieno in cui inserire la testa, protetta da uno strofinaccio.

Nulla andava sprecato. Tutto si aggiustava. E quando ormai l’attrezzo era divenuto inutilizzabile, si riciclava. Diventando parte di una nuova creazione. I brani di questo post sono tratti dal libro “Lassù dove si toccava il cielo”, la vita contadina di montagna negli Anni quaranta e Cinquanta del secolo scorso.

A Cornalba il libro “Lassù dove si toccava il cielo” e la vita contadina del passato