Erano ragazzine che volevano solo giocare a calcio

Erano ragazzine che volevano solo giocare a calcio

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Se ne stavano sedute su una panchina nei Giardini di Porta Venezia a Milano, alcune amiche adolescenti in quel pomeriggio di primavera del 1932. Osservavano i coetanei giocare a pallone, partite interminabili e lunghi pomeriggi di sudore e polvere. Un tiro un po’ lungo ed ecco che il pallone finì proprio dove erano sedute le ragazze. Lei si chiamava Rosetta e senza pensarci due volte puntò il piede ruotandolo appena appena e, quasi accarezzando la sfera, la rispedì in un tiro secco in mezzo al campetto.  Calò un silenzio attonito.  Il primo giudice fu proprio uno dei maschi, che, avvicinandosi a Rosetta, le disse che avrebbe dovuto giocare a calcio.

La ragazzina non se lo fece ripetere due volte. Insieme alle sue due sorelle Marta e Giovanna cominciò a chiedere, a pregare, a insistere per poter avere una squadra di calcio. Una squadra di calcio femminile.

Lei era Rosetta Boccalini e fondò il Gruppo Femminile Calciatrici Milanesi. Le ragazze trovarono un allenatore, poi perfino un presidente, e infine un piccolo appezzamento di terreno sconnesso e pietroso dove cominciarono ad allenarsi. La divisa era un gonnellino nero, calzettoni lunghi e scarpe robuste per impattare i colpi al pallone. Lo sponsor era Cinzani. Arrivarono sempre più ragazze,  tutte poco più che quindicenni, un numero che permise di raggrupparsi in due squadre. Era l’Italia fascista e la priorità era la maternità. Ci si chiedeva se le continue pallonate potessero compromettere la fertilità delle giovani future madri. La sentenza venne da un illustre rettore dell’Università di Genova che diede il via libera al gioco del calcio per diletto femminile. Nessun danno poteva recare al corpo femminile. Via libera anche dal Coni.

Una data memorabile l’11 giugno 1933. Davanti a mille spettatori, nel campo rionale di via Fabrizio Filzi, si disputò la prima partita pubblica in Italia di calcio femminile. A seguire i loro allenamenti si presentarono perfino i giocatori dell’Amrosiana Inter, capitanati dal grande Meazza. Tutti esterrefatti davanti alle semplici ma talentuose prodezze delle ragazze calciatrici. Un sogno che si stava avverando. Un’idea dopo l’altra. Un vero campionato da organizzare per l’autunno. Ma quella partita fu anche l’ultima. Un sogno infranto. A capo del Coni era appena stato nominato Achille Starace. Il suo obiettivo era selezionare il maggior numero di Giovani e ragazze da portare alle Olimpiadi di Berlino nel 1936. Ma nei suoi obiettivi non era previsto il calcio femminile. Le ragazze, soprattutto  Rosetta, erano brave, davvero brave. Ma i funzionari le dirottarono ad altri sport. Per cementare la sentenza giunse anche la circolare ufficiale dove si vietava il calcio femminile in ogni angolo d’Italia.

Quei sogni di azzurro cielo e lanci verso l’infinito si offuscarono nel buio della Seconda Guerra Mondiale.

Ma Rosetta Boccalini e le sue amiche avevano gettato un seme. Negli anni l’impegno costante e la fiducia inesauribile nella femminilità giocata anche attraverso un pallone portò nel 1968  alla creazione della Federazione Italiana Calcio Femminile. Nel giugno 2021 all’interno del Parco Sempione di Milano, nei pressi dell’Arena Civica, è stata intitolata una via a quelle calciatrici del 1933 ed è stato posta una stele a ricordo del coraggio di quelle giovinette.

Io ho giocato a calcio fin da bambina con i miei cugini, nel campetto vicino a casa. Giocavo anche a bigliardino. Ero brava, il mio punto di forza era il tiro secco mancino e le parate del mio portiere. Potenza e precisione del tiro. Il volare alto,  quasi a catturare la luna. Nessuna rivalsa, nessuna ripicca, nessuna forma di protesta. Solo la gioia pura di urlare e correre dopo il gol, il sentirsi un po’ supereroi e aquile in volo. Il campo da gioco come una distesa d’infinito. Senza nomi né lettere. Solo libertà.