“Torneranno i prati”, Paola Casella e la speranza di una nuova primavera

“Torneranno i prati”,

nella recensione di Paola Casella

la speranza di una nuova primavera

oltre l’inverno della Grande Guerra

locandina
torneranno i prati

     “Questo ero io,

e lo ricordo proprio a te,

sperando che tu sia custode della mia memoria,

e che porti con te il mio messaggio.

Perché “anche quelli che sono tornati indietro

hanno portato dentro la morte che hanno conosciuto…”

                                                                          A cura di Paola Casella

“In un avamposto d’alta quota, verso la fine della prima guerra mondiale, un gruppo di militari combatte a pochi metri di distanza dalla trincea austriaca, “così vicina che pare di udire il loro respiro”. Intorno, solo neve e silenzio. Dentro, il freddo, la paura, la stanchezza, la rassegnazione. E gli ordini insensati che arrivano da qualche scrivania lontana, al caldo. Ordini telefonati che mandano i soldati a farsi impallinare come tordi.
torneranno i prati, scritto tutto minuscolo come si conviene ad una storia minima e morale, non è un film d’azione e non ha nemmeno una trama nel senso canonico del termine, perché i pochi avvenimenti si consumano come la cera di una candela, dentro una quotidianità sporca e scoraggiata. Il film di Ermanno Olmi è una ballata malinconica come la melodia alla fisarmonica che apre la narrazione, e triste come Il silenzio, le cui note sono incorporate nel tema finale composto e suonato alla tromba da Paolo Fresu.

“torneranno i prati” è un film epidermico, che ci fa sentire il ruggito dei mortai in lontananza, il rosicchiare del trapano che scava una galleria nemica sotto la trincea, il gelo e la monotonia delle giornate segnate dal rancio e dalla consegna della posta, unica occasione in cui i nomi dei soldati vengono pronunciati, riconoscendoli come esseri umani invece che come semplici numeri. I militari, dal capitano alla recluta, restano attoniti davanti all’orrore dell’inganno in cui sono caduti per aver creduto nell’amor di patria e nel dovere del cittadino italiano. Alcuni guardano verso di noi e raccontano quell’orrore e quella solitudine, ricordandoci i magistrali sguardi in camera de Il mestiere delle armi. Anche questi soldati semplici sono testimoni della storia, una storia che si è consumata sulla loro pelle, e a loro insaputa.
La fotografia profondamente evocativa di Fabio Olmi, a suo agio nel gestire tanto le nebbie quanto il profilo nitido delle montagne, allinea quadri grigi in successione atemporale, sottolinea i colori dell’oro e del sangue; le scenografie di Giuseppe Pirrotta ricostruiscono con esattezza storica ed emotiva la miseria della trincea, fatta di pochi pezzi essenziali – la gavetta, la lampada ad olio – e i costumi di Andrea Cavalletto (con l’amichevole supervisione di Maurizio Millenotti) trasformano i soldati in fantasmi, ombre imbacuccate irriconoscibili a se stesse sotto pile di coperte che non bastano a cacciare il freddo dalle ossa. Ci vuole pudore per raccontare una guerra senza senso, come lo sono tutte le guerre. Ci vogliono lunghi silenzi, profondità di sguardo e di coscienza, per intonare un de profundis dedicato alla memoria dei tanti giovani (e meno giovani) morti in luoghi dove poi sarebbero ricresciuti i prati, cancellando la memoria del loro sacrificio.

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Fioriranno i prati

Un sacrificio di cui il regista si fa cantore, ritraendo i suoi soldati nel momento dell’estrema consapevolezza di essere andati a morire invano, in una guerra di posizione che si è rivelata una mera attesa del proprio destino finale.
In “torneranno i prati” c’è la lezione di Remarque e Rigoni Stern e Buzzati, nessuno citato perché tutti assorbiti nel sapere di Olmi, che crea un mondo da incubo i cui personaggi si rivolgono a noi dicendo: questo ero io, e lo ricordo proprio a te, sperando che tu sia custode della mia memoria, e che porti con te il mio messaggio. Perché “anche quelli che sono tornati indietro hanno portato dentro la morte che hanno conosciuto”, e se il piccolo Ermanno ricorda i racconti del padre, cui ha dedicato questo film, il regista più che ottantenne teme che, come dice un soldato, “di quel che c’è stato qui non si vedrà più niente, e quello che abbiamo patito non sembrerà più vero”.

Recensione di Paola Casella