Lo sguardo delle madri davanti alla guerra

Lo sguardo delle madri davanti alla guerra

Ogni guerra porta lacrime e pianti. Ogni guerra ha solo sconfitti, gli innocenti. I milioni di donne, anziani, bambini che devono assistere e subire il martirio dello sfacelo. Testimoni oculari della distruzione e della devastazione.

Ogni guerra ha uno sguardo, profondo come il mare, cupo come la notte, scuro come le nuvole cariche di pioggia. Uno sguardo che inchioda. Lo sguardo delle madri. Donne che reggono tra le braccia i piccini ancora attaccati al seno, sotto una tenda, dietro un portone, a ridosso di un cumulo di macerie. Madri che danno un tozzo di pane ai figlioletti rannicchiati vicino, mentre il calore scioglie ogni respiro in rantoli stanchi e sfiniti. Donne che cullano i piccini addormentati, sussurrando ninne nanne leggere, per farli acquietare, e forse sognare, nonostante il dolore. Madri che avvolgono nelle vesti i corpicini freddi dei propri bambini assassinati.

Nella storia sono migliaia le madri ritratte in dipinti sotto l’infuriare della guerra.

Il Massacro di Scio, dipinto di Eugène Delacroix,  fonte fr.muzeo.com Louvre, Parigi

Nel 1824 Eugène Delacroix immortalò un gruppo di abitanti greci prigionieri dell’esercito ottomano durante il periodo delle guerre per l’indipendenza della Grecia nel dipinto noto come “Il massacro di Scio“. L’attesa silenziosa, lo sguardo penetrante e scuro di una delle madri, pungente come una capocchia di spillo. Emerge un totale silenzio, senza vento, ma urlano quegli occhi la condanna verso il mondo, che assiste. È una forza dirompente quello sguardo di madre, occhi volti in su, come quando da bambini si aspetta il giudizio o l’attenzione dei grandi. Un lago di lacrime trattenuto dalle ciglia, un’angoscia che fa precipitare il cuore e lo frantuma tra le pietre della condanna. La madre fissa qualcuno a lato, qualcuno che incombe e tiene nel suo potere ogni respiro dei prigionieri. Le mani abbandonate in grembo formano come un rosario che chiude il pianto in un groppo di desolata attesa. Gli abiti a tunica coprono il corpo femminile come in una coperta, tessuto di lino e lana grezza che scende fino alle caviglie. Accanto a quella madre accovacciata, quasi in preghiera, un piccolo bimbo sembra dormire addossato ad un altro corpo più grande. La morte sembra nascondersi, tutta la luce è per quegli occhi di donna, occhi sfiduciati, rassegnati eppur ancora con una flebile ingenua, timida e innocente speranza.

Quasi duecento anni dopo un’altra immagine colpisce nello stesso sguardo: una madre macedone attende  di poter andare in Serbia.

Madre macedone si riposa in attesa di andare in Serbia

Il volto alzato, proteso verso l’alto, lo stesso sguardo di bimba davanti al mondo crudele e incomprensibile dei grandi. Stessa posa, perfino stessa foggia dei vestiti, stoffa lavorata a mano, semplice come la terra che ha calpestato. Accanto alla madre accovacciata, quasi in preghiera, il fagottino di un bimbo che sembra dormire, gli scarponcini incrostati di terra a testimoniare i mille giorni trascorsi in fuga dalla guerra. Della donna greca non è rimasto più nulla, polvere tra l’infinita polvere, dimenticata. Ma il suo sguardo fa ancora traboccare il cuore di doloroso rimpianto.

La madre macedone si è fermata un istante, per rifocillarsi, poi con la sua bimba avvolta nella felpa rosa, ha ripreso il cammino. Di lei nulla si sa. Volto tra i volti di un popolo infinito mosso dalla marea. Madri che hanno scavalcato la Storia, percorso il cammino del tempo, per unirsi con lo stesso sguardo liquido e profondo a crocifiggerci nella nostra ipocrisia. Uno sguardo sull’abisso in cui i Grandi continuano a precipitare.

Sembra un gioco fotografico, eppure è realtà. La Storia insegna ma noi non vogliamo imparare.

E a pagare sono sempre loro, le nostre Madri, i nostri Figli.