Artemisia Gentileschi, un cuore a colori

Artemisia Gentileschi,

un cuore a colori

A Roma fino al 7 maggio prossimo è visitabile una mostra tutta femminile e quasi rivoluzionaria, perché dedicata ad una delle poche pittrici affermate in un mondo secolare predominato da maschi, dal titolo Artemisia Gentileschi e il suo tempo.

Questa indomita e fiera fanciulla mi ha affascinata fin da ragazzina per la sua sfrenata irruenza e per la sua possente capacità realistica di ribellarsi alla vita in cui il mondo maschilista del tempo l’aveva costretta a muoversi.

Ho catturato la sua forza e la sua dolcezza ammirando le sue opere in un libro che avevo scovato in biblioteca, mentre cercavo notizie di un altro pittore che amo alla follia: Caravaggio. Ed ero incappata in “Giuditta che decapita Oloferne“.

Giuditta che decapita Oloferne, di Artemisia Gentileschi

L’ispirazione a Caravaggio era evidente, in una somiglianza tragica, inquietante, bellissima. Cercai notizie su  questa sconosciuta pittrice e scoprii che anche lei adorava Caravaggio, trasportava sulla tela la realtà drammatica e cupa del dolore dell’uomo. Era unica.

Caravaggio, Giuditta e Oloferne

Quando qualche giorno dopo un amico di famiglia, conversando sull’arte e sulla musica, aveva fatto notare che non si sono mai registrate opere di rilievo di pittrici donne nei secoli, pur nella mia giovane età (15 anni) mi ero inalberata tantissimo ed avevo risposto tagliente che forse si dimenticava di Artemisia. Al che il distinto signore mi guardò e disse sprezzante: “Ma quella era pazza.”

Artemisia Gentileschi ebbe una vita estremamamente travagliata, dolorosissima: nata nel 1593, perse la mamma ancora bambina, dovette accudire i quattro fratelli e piangere la morte di due di loro in tenera età; ogni giornata era scandita dalla presenza autoritaria del padre Orazio, pittore famoso in città. Ma poi la tragedia avvolse di buio il suo giovane cuore, quando a soli 15 anni subì una violenza che la segnò tutta la vita.

La pittura, l’odore dei colori, il liquido fluire del pennello, la tela bianca che come per magia diventava vita, fecero parte della sua personalià fin dai primi anni. Il padre la portava con sè in bottega e la lasciava pasticciare liberamente, scoprendo presto quel talento prodigioso che a lui era mancato: Artemisia era brava, bravissima a dipingere. Cercò di farla iscrivere all’Accademia ma a quel tempo le femmine non potevano accedervi. Furibondo per il rifiuto, decise che l’avrebbe seguita lui, sua figlia, “più brava di tutti voi maschi”, e infatti la piccola creava già abbozzi di splendore pittoreo. A quindici anni il padre l’affidò ad un suo caro amico pittore, che teneva in gran conto, affinché la ragazzina potesse completare lo studio delle prospettive.

Artemisia Gentileschi

Artemisia era bellissima, sfolgorante. L’uomo impazzì per lei, ma non avendo alcuna possibilità di conquistarla, un giorno la chiuse in una stanzetta e la violentò. Dopo alcuni mesi la ragazza prese coraggio  e decise di denunciarlo. Ma a questo punto l’orrore del mondo maschilista emerse in tutta la sua crudeltà. I giudici, per scoraggiarla, la sottoposero a torture, schiacciandole perfino i pollici, per verificare se diceva la verità, ma lei non cedette. Continuò a sostenere la sua accusa, mentre tutta Roma non parlava d’altro. Fu umiliata in pubblico, emarginata pubblicamente, allontanata da tutti.

Il pittore Tassi venne condannato a cinque anni di carcere, ma dopo otto mesi fu liberato, mentre Artemisia fu costretta ad andarsene da Roma, dove da tutti ormai era considerata solo una cattiva ragazza.

Prima era la pittrice prodigio, ora nessuno più voleva i suoi quadri.

Si sposò con un uomo dolce e tranquillo e a Firenze riuscì a ricomporre i pezzi della sua vita distrutta. Il cuore affranto e disperato a poco a poco smise di sanguinare e con il tempo riuscì a ritrovare un dolce equilibrio. Il signore della città, Cosimo de’ Medici, acquistò molti dei suoi quadri, conquistato dalla loro potenza, i figlioletti amavano incondizionatamente quella mamma speciale e bella, forte come la roccia, ardente come il fuoco.

Putroppo dei quattro bambini che ebbe dal marito, sopravvisse solo la primogenita. Gli altri morirono ancora piccini.

Ma l’amore per l’arte era come una bandiera, un scudo che la proteggeva e consolava nelle lunghe notti. Viveva con poco, la povertà era sempre in agguato, ma nonostante questo Artemisia non rinnegò mai la forza dirompente della pittura. Il suo matrimonio non ebbe un lieto fine, e lei stessa ebbe alcuni amanti, eppure sapeva di avere qualcosa di profondo e unico che la faceva vibrare e volare sopra le nubi scure della sua esistenza.

                                LA PRIMA FEMMINISTA

Opera di Artemisia Gentileschi

Quando accettò l’invito del Principe Ruffo di Calabria e si trasferì a Napoli, era una donna orgogliosa e ormai indipendente, libera e agguerrita in un mondo di uomini. Ritrovò la sua ebbrezza di pittrice prodigio e finalmente ebbe riposo quel suo cuore stanco. Si riconciliò anche con il padre Orazio, ormai anziano, che le morì tra le braccia. Rimase sola e fu allora che Artemisia sentì tutto il peso della sua disperata solitudine. Non aveva più forze per lottare, voleva solo abandonarsi alla risacca e lasciarsi avvolgere dal cullare delle onde. Il 14 giugno del 1653, all’inizio dell’estate, mentre il sole inondava Napoli di luce e colori, gli occhi della pittrice guerriera si chiusero per sempre, a sessant’anni.